In merito alla pubblicazione del manifesto «Università libera, università del futuro» contro la «svolta aziendalista» delle università, documento già sottoscritto da diversi docenti, ecco la risposta del candidato rettore all’Università degli Studi di Padova Fabrizio Dughiero
«Dalla riforma Gelmini si è assistito a un progressivo, e a tratti maldestro, tentativo di trasformazione degli Atenei in aziende dove la ricerca delle performance, siano esse sulla ricerca, sulla didattica, sulla terza missione e sul famoso costo standard dello studente si è fatta sempre più esigente e asfissiante. All’interno di questa logica e visione distorta il ruolo delle università sembrerebbe essere soprattutto quello di produrre laureati da immettere nel mercato del lavoro. Si chiede ai rettori e ai direttori delle strutture di spogliarsi del ruolo di docenti e ricercatori e indossare i panni del manager, con lo scopo primario di fare quadrare i conti (anzi di fare vedere quanto bravi sono a produrre anche utili pur nelle ristrettezze economiche dei bilanci concessi dai fondi di finanziamento ordinario FFO) nel tentativo di rendere «competitive» le imprese che governano».
Ho voluto riportare un capoverso che ho ripreso dalle linee programmatiche presenti nel mio sito di presentazione della candidatura a rettore, pubblicato più di un mese fa, per raccogliere la sollecitazione a discutere le idee presentate da alcune colleghe e alcuni colleghi della nostra università nel manifesto “Università libera, università del futuro” inviato a tutte le candidate e candidati a rettrice e rettore per il prossimo sessennio.
Basterebbe questo per capire quale sia il mio modo di concepire l’università dei prossimi anni anzi decenni, e quanto questo mio pensiero sia in contrasto con le attuali strategie di sviluppo degli atenei italiani, con le sempre più pesanti e burocratiche modalità di gestione, la valutazione del lavoro di ricerca e didattica delle persone che vivono e hanno vissuto l’università in questi ultimi anni. Per non lasciare le mie considerazioni astratte voglio fare riferimento in particolare a tre punti che compaiono nel manifesto, magari riprendendo qualche concetto espresso anche negli altri punti, rendendomi disponibile per un confronto aperto e a tutto tondo sul tema università-azienda che mi sta molto a cuore.
Iniziamo dalla valutazione della ricerca. È un tema molto attuale visto che tutte le ricercatrici e i ricercatori delle università italiane sono alle prese con la cosiddetta VQR. Ormai tale valutazione è divenuta un mero esercizio numerico, basato su algoritmi che nemmeno ci è dato di conoscere ex ante, che è finalizzata a distribuire una quota premiale del Fondo di Finanziamento Ordinario. Identico ragionamento potrebbe essere ripetuto per i piani strategici (parola usata a sproposito in molte occasioni) della ricerca che ciascun dipartimento è obbligato a compilare per accedere ad una quota parte di finanziamenti, questa volta distribuiti internamente. Sto assistendo, e con me molte colleghe e colleghi, a discussioni vacue volte a capire che cosa l’ANVUR vuole dalle università e dai dipartimenti che ne fanno parte, in termini di numeri di pubblicazioni, di quanti e quali ricercatori coinvolgere nella valutazione, nelle modalità di come pesare i diversi contributi. Non ho invece assistito a discussioni che pongano l’accento sull’essenza della valutazione ovvero se questo metodo sia effettivamente efficace per valutare la qualità della ricerca di un Ateneo come il nostro che spazia dalla fisica nucleare, alle scienze della vita fino alla filologia classica, nel ricercare e individuare le eccellenze vere, come pure nel riconoscere le sacche di improduttività. È arrivato il momento di proporre un metodo diverso piuttosto che subire in modo supino questa smania di inseguire i numeri per avere “di più” rispetto ad altre università italiane, quasi a dire che la cultura è una gara a chi arriva primo! Io penso che l’Ateneo patavino debba sperimentare nuove modalità per la valutazione del lavoro delle ricercatrici e ricercatori; un metodo che possa tener conto delle diverse specificità presenti in Ateneo e che non sia una mera applicazione di un algoritmo privo di qualsiasi componente soggettiva. Un metodo educativo anche per le giovani generazioni che vada anche al di là del riconoscimento del valore di un ricercatore o di una ricercatrice attraverso l’ossessione del numero – dell’indice di Hirsch, del numero di citazioni, dell’impact factor della rivista sulla quale viene pubblicato il lavoro, del numero di pubblicazioni per anno, etc – ma sulla vera qualità del lavoro che spesso per essere riconosciuta tale ha bisogno di tempo, spesso asincrono con i tempi richiesti dalla carriera nelle università-aziende. E poi dopo aver sperimentato tale metodo, pensato, progettato e applicato solo dopo un’ampia e condivisa discussione, portarlo come modello da adottare in tutte le università italiane. Questo è il ruolo delle università libere e del futuro: proporre, discutere, progettare, sperimentare, non subire in modo passivo!
Anche la didattica ha trovato in quest’ultimo anno humus fertile per un confronto. C’è chi pensa, e tra questi anche chi ha rivestito ruoli importanti nell’università, che il futuro della didattica sia l’uso della tecnologia, la didattica a distanza. Io penso invece che nel pieno rispetto della libertà di insegnamento, libertà che si deve esprimere anche nella scelta della metodologia e non solo dei contenuti, la nostra Università sia chiamata a offrire la possibilità al personale docente, attraverso adeguati investimenti in infrastrutture, risorse umane e formazione, di sperimentare e proporre alle studentesse e agli studenti forme diverse di percorsi di apprendimento. E questo si allaccia anche ad un altro parametro che la nostra università è obbligata ad inseguire: il costo standard dello studente (quasi ad indicare che le studentesse e gli studenti altro non siano se non un costo). L’inseguimento “tout court” di questo parametro porta alla licealizzazione dell’università e ad un appiattimento dei contenuti dei percorsi di formazione. È invece importante puntare su percorsi e metodologie di apprendimento più efficaci e basati soprattutto sulla contaminazione dei saperi. Il mondo e i lavori del futuro non saranno più solo basati sulla conoscenza, ma anche e in taluni casi soprattutto, sulla creatività. Creatività che non può essere considerata un talento innato in ciascuno di noi, ma che richiede, come competenza, di essere coltivata e appresa attraverso una rivalutazione dei saperi umanistici e sociali anche negli ambiti scientifici, ma soprattutto nella frequentazione delle aule universitarie attraverso lezioni, seminari, partecipazione attiva e relazioni sociali, e queste ultime sono nettamente in contrasto con un massiccio uso della didattica a distanza. Torniamo a far vivere le nostre università appieno, anzi investiamo per dare più spazi vivibili alle studentesse e agli studenti.
Condivisione e democrazia, trasparenza, semplificazione e razionalizzazione della normativa e amministrazione interna, un percorso efficace di trasformazione digitale delle procedure, al fine di riappropriarsi del tempo per la ricerca e la didattica sono tutti elementi che devono essere posti come guida per la gestione di un grande Ateneo. Voglio ricordare che un bravo docente è un eterno studente, che attraverso il suo lavoro di ricerca e studio aggiorna le sue lezioni e, viceversa, usa le sue lezioni per definire nuove direzioni di ricerca e che dobbiamo rifuggire dalla logica della ripetizione, magari con l’ausilio del web, di lezioni che diventano via via sempre più impersonali e slegate al tempo stesso in cui vengono erogate. Ma per questo c’è bisogno di tempo e il tempo si deve ricavare da quelle attività che ad oggi non producono nulla, in primis la burocrazia, le statistiche, i progetti strategici che poi di strategico hanno poco o niente. E questo non vuol dire “aziendalizzare” l’università ma renderla più vivibile, più efficiente, più a misura delle persone che ci vivono giorno per giorno. Un vero processo di democrazia e trasparenza non ama la fretta, ma richiede di acquisire tutte le informazioni necessarie, lasciare il tempo (ancora il tempo, valore inestimabile nel nostro lavoro) adeguato per valutarle, promuovere una discussione vera e non guidata, ed essere aperto ad accettare serenamente critiche e giudizi in vista del meglio per il nostro Ateneo.
Infine riprendo in modo integrale, facendola mia, la parte finale del manifesto: «L’università per cui ci vogliamo impegnare è piuttosto un luogo di emersione del senso e non solo di produzione di competenze e d’innovazione tecnologica in linea con le richieste della produzione, un luogo in cui esseri umani giovani e meno giovani si incontrano e contribuiscono alla costruzione di una società attraverso la costruzione di un sapere integrale, senza barriere tra discipline, non subordinato a logiche di mercato. Sarebbe un grave errore pensare ad una università volta solo alla formazione di medici, giuristi, economisti e ingegneri, per citare solo alcune professioni oggi di moda. Bisogna ritornare a pensare alla dimensione principale dell’educazione. Un lavoratore è prima di tutto un cittadino consapevole del mondo e quindi la sua formazione deve puntare non solo a trasferire competenze tecniche fruibili nell’esercizio della professione, ma anche a creare un orizzonte culturale più ampio, a stimolare la propria autonomia e la innata voglia di conoscere. E questo anche in una prospettiva in cui il lavoro nel futuro è sempre più difficilmente configurabile in schemi, competenze e conoscenze che ad oggi non ci è dato di conoscere e prevedere. Voglio concludere queste mie brevi note con una citazione di Charles L. de Montesquieu presa dal suo saggio Pensieri diversi:
Se fossi a conoscenza di qualcosa che mi fosse utile, ma risultasse pregiudizievole per la mia famiglia, lo scaccerei dalla mia mente. Se conoscessi qualcosa di utile alla mia famiglia, ma non alla mia patria, cercherei di dimenticarlo. Se conoscessi qualcosa di utile alla mia patria, ma dannoso all’Europa, oppure di utile all’Europa e pregiudizievole per il genere umano, lo considererei un delitto.
L’Università deve essere un luogo per le nostre studentesse e studenti, in cui si formano non solo i lavoratori di domani ma cittadini consapevoli che abitano il mondo. La nostra responsabilità, quella di noi “educatori”, è quindi di re-immaginare percorsi educativi in grado di formare individui capaci di altruismo, con il pensiero rivolto al bene comune, che sappiano esprimere solidarietà e difendere la tolleranza, che guardino al mondo del futuro come un bene prezioso da preservare per le prossime generazioni, che pensino all’inclusione sociale come la normalità e quotidianità del loro essere e sentire. Questa è l’università che vogliamo per noi e per le prossime generazioni. Questa è per noi “Università libera, università del futuro”».
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